Da Temi Romana del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma

La copertura assicurativa previdenziale dei lavoratori migranti.

A cura di Carlotta M. Manni Avvocato del Foro di Roma, Dottoranda di Ricerca in Diritto Internazionale presso la Pontificia Università Lateranense (SCV) Sommario: 1. Premessa – 2. Strumenti di riordino della disciplina: gli accordi bilaterali – 3. Considerazioni.

1. Premessa

La presenza dei lavoratori migranti nel contesto italia- no è fenomeno che è andato crescendo – e continua ad ampliarsi ulteriormente – specialmente a partire dagli anni ’90.

Questo comporta tuttora un’opera di inserimento di tali soggetti nella realtà socio economica nazionale, di grandissima estensione che riguarda una utenza multi- culturale talora in netta antitesi con quella dei paesi occidentali che la accoglie, con connotazioni religiose specifiche non ultimo per quanto riguarda le donne, di civiltà e di abitudini che non sempre riescono ad armonizzarsi con quelle vigenti in Italia.

Ciò non toglie che la legislazione nazionale ponga come requisito essenziale nei riguardi di chi fortunatamente svolge una attività produttiva, nella più ampia prospettiva che spazia dalla subordinazione alla autonomia, l’iscrizione a forme obbligatorie di assicurazioni sociali, in base al principio della territorialità del- l’obbligo. In breve, anche i lavoratori stranieri vengono equiparati a quelli italiani nella soggezione al regime assicurativo e previdenziale.

Ma mentre il Testo Unico sulla immigrazione garantisce ai lavoratori stranieri, regolarmente soggiornanti in Italia e alle loro famiglie, parità di trattamento e piena uguaglianza di diritti rispetto ai lavoratori nazionali – e di ciò non sembra esservi discussione – per alcune situazioni specifiche sussistono regole altrettanto spe- cifiche che meritano di essere esaminate almeno nella prospettazione della genesi dei fatti che ne giustificano la regolamentazione a tutti i livelli normativi.

Un dato di rilievo, che caratterizza tutto il sistema di cui ci stiamo occupando, è dato dal fatto per cui vi è una sostanziale equiparazione al regime nazionale degli extracomunitari, anche qui con le dovute attenzioni a situazioni non previste (e, almeno per ora, non prevedibili) nel nostro ordinamento. Citiamo a solo titolo di memento, il caso di famiglie in cui vi sono una pluralità di mogli (per motivi di tipo religioso, fino a quattro), e conseguentemente di figli di ciascuna di esse. Ciò incide anzitutto sul sistema delle prestazioni c.d. non pensionistiche, con rilievo anche nel settore della sicurezza sociale e del Welfare.

2. Strumenti di riordino della disciplina: gli accordi bilaterali
Il sistema italiano si estende ai lavoratori stranieri, ma avviene con modalità diverse, in base al luogo di residenza dei familiari del soggetto richiedente.

Peraltro vengono in rilievo alcune situazioni legate al fatto di un lavoratore, cittadino di un paese extracomunitario con cui vige una convenzione internazionale o anche un semplice accordo di reciprocità, oppure di un paese aderente all’Unione europea.

Nel primo caso, la presenza di un tipo di accordo di livello superiore tra Paesi, che rappresenta uno strumento universalmente conosciuto tra soggetti di diritto internazionale che entrino in rapporti tra di essi, appare necessario per ogni garanzia di tutela dei lavoratori, ma anche per poter regolare i flussi dei mezzi finanziari necessari per coprire gli oneri che derivano dalle prestazioni godute, laddove il sistema nazionale non sia in grado di sopportarne anche parzialmente il carico pur in presenza di contributi assicurativi.

Purtuttavia quando i familiari del lavoratore risiedono in Italia, si applica direttamente la normativa italiana, attuando la completa equiparazione dei soggetti che contribuiscono e, al tempo stesso, sono percettori di prestazioni.

Relativamente a familiari di cittadino straniero residenti all’estero, occorre identificare il paese di loro residenza effettiva.

Approfondendo le linee generali del fenomeno, rimane pur sempre il fatto per cui, se è vero che l’immigrazione può contribuire a risolvere questioni umane e sociali che possono identificarsi nella fame, nella povertà, nelle epidemie, nelle persecuzioni politiche dei paesi di provenienza, e in molte altre situazioni in cui l’individuo, in quanto tale, viene sottoposto ad uno stato di vessazioni contrarie alla dignità umana, è pur vero che tutto il fenomeno ha un costo non indifferente che non è sempre sostenibile rispetto all’entità delle entrate fiscali e parafiscali del paese di accoglienza e, per quanto ci riguarda, nel nostro paese.

Una ipotesi di soluzione, come abbiamo dinanzi fatto cenno, è il ricorso allo strumento politico dell’accordo bilaterale che può consentire, nell’ambito di un progetto che preveda flussi migratori programmati e controllati, un utilizzo di queste risorse umane come mano d’opera in Italia e, in pari tempo, alleggerire il fenomeno della sovrappopolazione nel, o meglio, nei Paesi di provenienza.

Non ultimo ricordiamo la possibilità del ricorso, nel testo degli auspicabili accordi, a forme di pagamento tra Paesi che prevedano lo scambio di materie prime e di energie.

3. Considerazioni. In questo scenario bene si inserisce la problematica della copertura finanziaria previdenziale di cui al presente scritto. Allorquando l’ingresso dei lavoratori in Italia venga programmato con la dovuta attenzione, si può incidere in maniera razionale e previsionale sulla occupazione dalla quale, in definitiva, provengono gran parte dei mezzi di finanziamento del sistema di previdenza sociale.

Per altra via si può rilevare un fatto importante quale è quello di incidere nel processo di invecchiamento della popolazione che sta interessando tutta l’Europa, quale effetto perverso di un comportamento volto ad esaltare, almeno nel passato anche recente, il controllo esasperato della natalità per perseguire un (temporaneo) miglioramento della qualità della vita.

Ma i minori ingressi nel mondo del lavoro, da una parte, e l’aumento dell’età media degli individui, dal- l’altra, fanno emergere grandi problematiche legate alla sostenibilità della spesa previdenziale. Il miglioramento delle condizioni di vita e l’aumento dell’età media – il tutto caratterizzante in diversa misura ognuno dei Paesi europei – propongono una situazione di grande conquista sociale sanitaria che mette sotto pressione il sistema previdenziale italiano.

Tuttavia quanto sin qui spiegato prescinde da un ulteriore fenomeno in espansione, anche se è vero che almeno nell’ultimo anno, grazie a interventi bilaterali e multilaterali tra Paesi interessati alla immigrazione, esso appare meglio arginato. Il riferimento è diretto alla immigrazione incontrollata di coloro che sbarcano sulle coste con mezzi di fortuna, che entrano in territorio italiano con permessi di studio e di ricerca limitati nel tempo, ma che poi scompaiono destinati ad alimentare la realtà dell’economia sommersa, quando non addirittura fatti criminosi.

Ma questo fa parte di una altra realtà che apre un capitolo diverso da quello che ci siamo proposti di esaminare.

 
GIURISPRUDENZA

CORTE DI GIUSTIZIA

DIRITTO CIVILE

Corte di giustizia, Grande Sezione, causa C- 581/18, RB contro TÜV Rheinland LGA Products e Allianz IARD, sentenza 11 giugno 2020

Articolo 18 TFUE – non discriminazione in base alla nazionalità – applicabilità del diritto dell’Unione – responsabilità civile derivante dalla produzione di dispositivi medici – contratto di assicurazione che prevede una limitazione geografica della copertura assicurativa

Il divieto generale di discriminazioni in base alla nazionalità previsto dall’art. 18, primo comma, TFUE, non è applicabile ad una clausola, prevista in un contratto concluso tra una compagnia assicurativa ed un produttore di dispositivi medici, che limita l’estensione geografica della copertura assicurativa della responsabilità civile derivante da tali dispositivi ai soli danni verificatisi nel territorio di un unico Stato membro poiché una tale fattispecie esula dal campo di applicazione del diritto dell’Unione (pronuncia riferita al caso di una cittadina tedesca – alla quale erano state impiantate delle protesi mammarie prodotte con silicone non autorizzato da una compagnia francese – che vantava, in base al diritto francese, la titolarità di un diritto di azione diretta in sede risarcitoria contro la compagnia assicurativa dell’impresa produttrice dei dispositivi, sebbene il contratto di assicurazione contenesse una clausola volta a limitare la copertura assicurativa ai soli danni verificatisi in Francia).

Testo della sentenza

Corte di giustizia, III sezione, causa C-786/18, Ratiopharm, sentenza 11 giugno 2020

Medicinali per uso umano – direttiva 2001/83/CE – articolo 96 – distribuzione a titolo gratuito di campioni di medicinali soggetti a prescrizione – esclusione dei farmacisti dal beneficio della distribuzione

L’articolo 96, paragrafo 1, della direttiva 2001/83/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 6 novembre 2001, recante un codice comunitario relativo ai medicinali per uso umano, come modificata dalla direttiva 2004/27/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 31 marzo 2004, deve essere interpretato nel senso che il medesimo non autorizza le aziende farmaceutiche a distribuire a titolo gratuito campioni di medicinali soggetti a prescrizione ai farmacisti; la menzionata disposizione non osta alla distribuzione gratuita ai farmacisti di campioni di medicinali non soggetti a prescrizione.

Testo della sentenza

Corte di giustizia, I sezione, causa C-343/19, Verein für Konsumenteninformation, sentenza 9 luglio 2020

Regolamento (UE) n. 1215/2012 – articolo 7, paragrafo 2 – competenza giurisdizionale in materia di illeciti civili – luogo in cui è avvenuto l’evento dannoso – luogo in cui si è concretizzato il danno

L’articolo 7, paragrafo 2, del regolamento (UE) n. 1215/2012 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 dicembre 2012, concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, deve essere interpretato nel senso che, qualora taluni veicoli siano stati illegalmente equipaggiati in uno Stato membro, da parte del loro costruttore, di un software che manipola i dati relativi alle emissioni dei gas di scarico, per poi essere acquistati presso un soggetto terzo in un altro Stato membro, il luogo in cui il danno si è concretizzato si trova in quest’ultimo Stato membro. In queste circostanze, il danno si concretizza al momento dell’acquisto di detti veicoli per un prezzo superiore al loro valore reale.

Testo della sentenza

Corte di giustizia, IV sezione, causa C-74/19, Transportes Aéreos Portugueses, sentenza 11 giugno 2020

Trasporto aereo – regolamento (CE) n. 261/2004 – articolo 5, paragrafo 3 – articolo 7, paragrafo 1 – compensazione ai passeggeri in caso di mancato imbarco, di cancellazione del volo o di ritardo prolungato – nozione di “circostanze eccezionali” – nozione di “misure ragionevoli”

Il comportamento molesto di un passeggero che ha causato il dirottamento di un aeromobile causando il ritardo del volo costituisce una “circostanza eccezionale” ai sensi dell’articolo 5, paragrafo 3, del regolamento (CE) n. 261/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 febbraio 2004, che istituisce regole comuni in materia di compensazione ed assistenza ai passeggeri in caso di negato imbarco, di cancellazione del volo o di ritardo prolungato e che abroga il regolamento (CEE) n. 295/91, salvo qualora il vettore aereo abbia contribuito al verificarsi di tale comportamento o abbia omesso di adottare le misure adeguate in considerazione dei segni precursori di un simile comportamento, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare. Un vettore aereo può avvalersi di tale “circostanza eccezionale” che ha interessato non il volo cancellato o ritardato bensì un volo precedente operato dal vettore medesimo con lo stesso aeromobile al fine di sottrarsi al proprio obbligo di compensazione pecuniaria dei passeggeri in caso di ritardo prolungato o di cancellazione di un volo, a condizione che esista un nesso di causalità diretta tra il verificarsi di tale circostanza e il ritardo o la cancellazione del volo successivo, circostanza che spetta al giudice del rinvio valutare, tenendo conto in particolare delle modalità di gestione dell’aeromobile di cui trattasi da parte del vettore aereo operativo interessato. La riprotezione di un passeggero da parte del vettore aereo mediante un volo successivo, che comporta che tale passeggero arrivi il giorno successivo a quello inizialmente previsto, non costituisce una “misura ragionevole” atta ad esonerare il vettore dal suo obbligo di compensazione pecuniaria ai sensi dell’art. 5, paragrafo 3 del regolamento n. 261/2004, salvo qualora non vi sia nessun’altra possibilità di riprotezione diretto o non diretto con un volo operato dal vettore stesso o da un altro vettore aereo e che arrivi meno tardi rispetto al volo successivo del vettore aereo interessato o qualora l’effettuazione di un simile riprotezione costituisca per il vettore aereo un sacrificio insopportabile tenuto conto delle capacità della sua impresa nel momento in questione, circostanza che spetta al giudice del rinvio valutare.

Testo della sentenza

Corte di giustizia, I sezione, causa C-81/19, Banca Transilvania, sentenza 9 luglio 2020 Tutela dei consumatori – direttiva 93/13/CEE – articolo 1, paragrafo 2 – clausole abusive – ambito

di applicazione – nozione di “disposizioni legislative o regolamentari”

Una clausola contrattuale che non è stata oggetto di negoziato individuale, ma che riproduce una regola che per la legge nazionale si applica tra le parti contraenti allorché non è stato convenuto nessun altro accordo al riguardo, non rientra nell’ambito di applicazione della direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori. Tale direttiva non si applica quando la clausola contrattuale riproduce una disposizione ed è imperativa. In questi casi, è legittimo presumere che il legislatore nazionale abbia stabilito un equilibrio tra diritti gli obblighi gravanti sulle parti del contratto.

Testo della sentenza

Corte di giustizia, V sezione, causa 264/19, Constantin Film Verleih GmbH contro YouTube LLC e Google Inc., sentenza 9 luglio 2020

Diritto d’autore e diritti connessi – piattaforma di video online – caricamento di un film senza il consenso del titolare – direttiva 2004/48/CE – articolo 8 – diritto d’informazione del richiedente – nozione di “indirizzo”

In caso di caricamento di un film su una piattaforma di video online senza il consenso del titolare dei diritti d’autore, l’articolo 8, paragrafo 2, lett. a), della direttiva 2004/48/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 29 aprile 2004 sul rispetto dei diritti di proprietà intellettuale obbliga le autorità giudiziarie ad ordinare al gestore della piattaforma di fornire esclusivamente l’indirizzo postale dell’utente interessato ma non il suo indirizzo di posta elettronica, l’indirizzo IP utilizzato per caricare tali file o utilizzato in occasione del suo ultimo accesso all’account utente o il numero telefonico (sentenza emessa nell’ambito di una controversia relativa alla riconducibilità di simili informazioni alla nozione di “indirizzo” contenuta nell’art. 8, paragrafo 2, lett. a) della direttiva 2004/48/CE).

Testo della sentenza

Corte di giustizia, Grande sezione, causa 129/19, Presidenza del Consiglio dei Ministri, sentenza 16 luglio 2020

Indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti – direttiva 2004/80/CEE – articolo 12, paragrafo 2 – violazione del diritto dell’Unione derivante dalla trasposizione tardiva – ambito di applicazione – vittime residenti in uno Stato membro che non si trovano in una situazione transfrontaliera – nozione di indennizzo equo ed adeguato

Il regime della responsabilità extracontrattuale di uno Stato membro per danno causato dalla violazione del diritto dell’Unione è applicabile nei confronti di vittime abitualmente residenti in detto Stato membro, nel cui territorio il reato intenzionale violento è stato commesso, nel caso di trasposizione tardiva da parte di detto Stato della direttiva 2004/80/CE del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativa all’indennizzo delle vittime di reato. Un indennizzo forfettario concesso alle vittime di violenza sessuale sulla base di un sistema nazionale di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti non può essere qualificato come “equo ed adeguato”, ai sensi dell’articolo 12, paragrafo 2, della direttiva 2004/80/CEE, qualora sia fissato senza tenere conto della gravità delle conseguenze del reato per le vittime e non compensi in maniera adeguata il danno materiale e morale subito.

Testo della sentenza

Corte di giustizia, Grande sezione, causa 311/18, Data Protection Commissioner contro Facebook Ireland Limited e Maximillian Schrems, sentenza 16 luglio 2020

Tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali – regolamento (UE) 2016/679 – trasferimento a fini commerciali di dati personali verso Paesi terzi – decisione di adeguatezza della Commissione – poteri delle autorità di controllo – trattamento da parte delle pubbliche autorità di un Paese terzo, a fini di sicurezza nazionale, dei dati trasferiti

L’articolo 2, paragrafi 1 e 2, del RGPD va interpretato nel senso che comprende nel suo ambito di applicazione anche il trasferimento di dati personali a fini commerciali da un operatore economico stabilito in uno Stato membro verso un altro stabilito in un Paese terzo, nonostante il fatto che, durante o in seguito a tale trasferimento, i suddetti dati possano essere sottoposti a trattamento da parte delle autorità del Paese terzo a fini di sicurezza pubblica, di difesa e sicurezza dello Stato.

L’articolo 46, par., e l’articolo 46, par. 2, lett. c), del RGPD vanno interpretati nel senso che le garanzie adeguate, i diritti azionabili ed i mezzi di ricorso effettivi richiesti da tali disposizioni devono garantire che i diritti delle persone i cui dati personali sono trasferiti verso un Paese terzo sul fondamento di clausole tipo di protezione dei dati godano di un livello di protezione sostanzialmente equivalente a quello garantito all’interno dell’Unione dal RGPD, letto alla luce della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. A tal fine, la valutazione del livello di protezione deve, in particolare, prendere in considerazione tanto le clausole contrattuali convenute tra il titolare o il responsabile del trattamento stabiliti nell’Unione e il destinatario del trasferimento stabilito nel Paese terzo quanto, rispetto a un eventuale accesso delle autorità pubbliche del Paese terzo ai dati personali trasferiti, gli elementi rilevanti del sistema giuridico di quest’ultimo (in particolare quelli enunciati all’articolo 45, par. 2, RGPD).

L’articolo 58, par. 2, lettere f) e j), del RGPD va interpretato nel senso che, a meno che esista una decisione di adeguatezza validamente adottata dalla Commissione europea, l’autorità di controllo competente è tenuta a sospendere o a vietare un trasferimento di dati verso un Paese terzo effettuato sulla base di clausole tipo di protezione dei dati adottate dalla Commissione, qualora detta autorità di controllo ritenga, alla luce del complesso delle circostanze proprie di tale trasferimento, che le suddette clausole non siano o non possano essere rispettate in tale Paese terzo e che la protezione dei dati trasferiti richiesta dal diritto dell’Unione (artt. 45 e 46 RGPD e Carta dei diritti fondamentali), non possa essere garantita con altri mezzi, ove il titolare o il responsabile del trattamento stabiliti nell’Unione non abbiano essi stessi sospeso o interrotto il trasferimento.

Testo della sentenza

Corte di giustizia, I sezione, causa C-80/19, E.E., sentenza 16 luglio 2020

Cooperazione giudiziaria in materia civile – regolamento (UE) n. 650/2012 – ambito di applicazione – nozione di “successione con implicazioni transfrontaliere” – nozioni di “decisione” e di “atto pubblico” – accordo di scelta del foro e di scelta della legge applicabile alla successione

La nozione di “successione con implicazioni transfrontaliere”, prevista dal regolamento (UE) n. 650/2012 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 4 luglio 2012, relativo alla competenza, alla legge applicabile, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni e all’accettazione e all’esecuzione degli atti pubblici in materia di successioni e alla creazione di un certificato successorio europeo, comprende la situazione in cui il defunto, cittadino di uno Stato membro e residente in un altro Stato membro al momento del suo decesso, manteneva legami con il primo di tali Stati membri, in cui si trovano i beni che compongono la successione, ed i suoi eredi hanno la loro residenza in tali due Stati membri. L’ultima residenza abituale del defunto va individuata dall’autorità che si occupa della successione all’interno di uno solo dei suddetti Stati membri. Gli articoli 4 e 59 del suddetto regolamento devono essere interpretati nel senso che un notaio di uno Stato membro, non qualificato come “organo giurisdizionale” ai sensi del regolamento, può rilasciare certificati successori nazionali senza attenersi alle norme generali in materia di competenza previste da detto regolamento. Se il giudice del rinvio ritiene che tali certificati soddisfano le condizioni dell’articolo 3, par. 1, lett. i), del regolamento, e possono, quindi, essere considerati come “atti pubblici”, essi producono, negli altri Stati membri, gli effetti che l’articolo 59, par. 1, e l’articolo 60, par. 1, del regolamento attribuiscono agli atti pubblici.

Gli articoli 4, 5, 7, 22 e l’articolo 83, paragrafi 2 e 4, del suddetto regolamento vanno interpretati nel senso che l’organo giurisdizionale competente in materia di successioni e l’applicabilità della legge successoria di uno Stato membro possono essere determinati dalla volontà del de cuius nonché dall’accordo tra i suoi eredi, anche se diversi da quelli che risulterebbero dall’applicazione dei criteri stabiliti da tale regolamento.

Testo della sentenza

CORTE EUROPEA DEI DIRITTI UMANI1
Corte europea dei diritti umani, I sezione, Avellone e altri c. Italia, ricorso n. 6561/10,

sentenza 9 luglio 2020

Art. 6 par. 1 CEDU – equo processo – stato di diritto – ingerenza legislativa nell’amministrazione della giustizia

Il principio dello Stato di diritto e la nozione di equo processo di cui all’art. 6, par. 1, CEDU precludono al legislatore, salvo che ricorrano motivi imperativi di interesse generale, l’introduzione di nuove disposizioni retroattive, incidenti su diritti derivanti da leggi in vigore, che comportino un’ingerenza nell’amministrazione della giustizia finalizzata a influenzare la determinazione giudiziaria di una controversia.

Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto che la promulgazione della legge 24 dicembre 2007, n. 244 – il cui art. 2, c. 505, che definisce l’interpretazione autentica della disposizione concernente la maggiorazione pensionistica per gli ex combattenti (art. 6, c. 3, della legge 15 aprile 1985, n. 140) – abbia avuto l’effetto di determinare l’esito delle controversie in corso, modificandolo a vantaggio dello Stato italiano. Per tale ragione, la Corte ha riscontrato la violazione dell’art. 6, par. 1, della Convenzione.

Testo della sentenza (traduzione italiana a cura del Ministero della Giustizia)

Corte europea dei diritti umani, IV sezione, Kövesi c. Romania, ricorso n. 3594/19, sentenza 5 maggio 2020

L’espressione ‘Corte europea dei diritti umani’ (dalla versione ufficiale inglese European Court of Human Rights) è utilizzata dalla redazione a preferenza di quella ‘Corte europea dei diritti dell’uomo’ (traduzione non ufficiale dalla versione francese Cour Européenne des droits de l’homme). Essa costituisce formula in uso nel linguaggio specialistico e accreditata nella letteratura scientifica di riferimento.

Art. 6 CEDU (equo processo) – diritto di accesso a un tribunale – Eskelinen test – art. 10 CEDU (libertà d’espressione) – fine prematura del mandato – indipendenza della magistratura – Stato di diritto

Le controversie tra un dipendente pubblico e lo Stato rientrano nel campo di applicazione dell’art. 6 par. 1. Tale garanzia è sospesa qualora sussistano due condizioni: l’esistenza di una norma nazionale che escluda espressamente la possibilità di accedere alla tutela giurisdizionale per una posizione determinata e la sussistenza di un’oggettiva giustificazione nell’interesse dello Stato per la data esclusione.

Nel caso di specie, la ricorrente lamentava di non aver avuto accesso a un tribunale per contestare la fine prematura del proprio mandato come Procuratore capo della Direzione nazionale anticorruzione (art. 6, par. 1, CEDU) e che il provvedimento fosse stato adottato in ragione di opinioni pubblicamente espresse dalla stessa, nella sua veste professionale, con riguardo alle riforme legislative incidenti sull’ordinamento giudiziario in Romania (art. 10 CEDU). La Corte ha dichiarato che la ricorrente non ha avuto accesso a rimedi interni effettivi per contestare le ragioni della destituzione dalla posizione di Procuratore capo della Direzione nazionale anticorruzione. In particolare, in seguito alla sentenza della Corte costituzionale rumena del 30 maggio 2018, qualsiasi forma di tutela giurisdizionale è stata limitata a un controllo formale del decreto di destituzione, mentre è stata esclusa ogni forma di valutazione sull’adeguatezza delle ragioni e la rilevanza dei fatti a sostegno del provvedimento, nonché sul rispetto delle condizioni giuridiche per la sua validità.

Testo della sentenza

Corte europea dei diritti umani, I sezione, E.C. c. Italia, ricorso n. 82314/17, decisione del 30 giugno 2020

Art. 8 CEDU – diritto al rispetto della vita privata e familiare – collocamento figli in famiglia affidataria – ricongiungimento familiare

Il mancato ricongiungimento del minore affidato con la famiglia di origine non viola l’art. 8 CEDU allorquando le autorità nazionali abbiano valutato adeguatamente la situazione concreta tenendone altresì in considerazione la volontà.
Nel caso di specie, il ricorrente lamentava la violazione del diritto alla vita privata e familiare di cui all’art. 8 CEDU a causa del collocamento del figlio minorenne in una famiglia affidataria. La Corte ha ritenuto che le autorità nazionali, meglio posizionate per trovare un giusto equilibrio tra l’interesse del minore a vivere in un ambiente equilibrato e l’interesse della ricorrente, abbiano adottato le misure che ragionevolmente si potevano loro richiedere affinché il minore potesse condurre una vita familiare all’interno della sua famiglia d’origine. Inoltre, la Corte ha rilevato come esse siano state guidate nelle loro decisioni dalla volontà di preservare lo sviluppo psicologico del minore e non abbiano oltrepassato il margine di discrezionalità loro conferito dall’art. 8, par. 2, CEDU. Di conseguenza, il ricorso è stato dichiarato irricevibile in quanto manifestamente infondato ai sensi dell’art. 35, para. 3 e 4, CEDU.

Testo della decisione (traduzione italiana a cura del Ministero della Giustizia)

CORTE COSTITUZIONALE

Corte Costituzionale, sentenza n. 114 del 12 giugno 2020

Sono manifestamente inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 649 c.p.p. per eventuale contrasto con gli art. 3 e 117 Cost, in relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) e all’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), perché identiche ad altre questioni già dichiarate inammissibili. La Corte di giustizia e la Corte europea dei diritti umani ritengono infatti che la sottoposizione di un imputato a processo penale per il medesimo fatto per cui è stato già sanzionato in via amministrativa non è di per sé contraria al principio del ne bis in idem qualora sussista un legame materiale e temporale sufficientemente stretto tra i due procedimenti, ossia in presenza di sanzioni che perseguono scopi complementari, della prevedibilità del “doppio binario” sanzionatorio, di forme di coordinamento tra i procedimenti e della proporzionalità del complessivo risultato sanzionatorio.

Testo della sentenza

Ne bis in idem – 649 c.p.p. – doppio binario sanzionatorio – omesso versamento Iva – art. 50 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea

CORTE DI GIUSTIZIA

DIRITTO DEL LAVORO

Corte di giustizia, I sezione, cause riunite C-762/18 e C-37/19, Varhoven kasatsionen sad na Republika Bulgaria, sentenza 25 giugno 2020

Direttiva 2003/88/CE – articolo 7 paragrafi 1 e 2 – diritto alle ferie annuali retribuite – licenziamento illegittimo – indennità finanziaria sostitutiva nel caso di successiva interruzione del rapporto di lavoro

L’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 2003/88/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 4 novembre 2003 concernente taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro deve essere interpretato nel senso che un lavoratore illegittimamente licenziato e successivamente reintegrato nel suo posto di lavoro, a seguito dell’annullamento del suo licenziamento mediante una decisione giudiziaria ha diritto alle ferie annuali retribuite per il periodo compreso tra la data del licenziamento e la data della sua reintegrazione nel posto di lavoro. Qualora, nel periodo compreso tra il licenziamento illegittimo e la reintegrazione nel suo posto di lavoro il lavoratore abbia occupato un nuovo posto di lavoro, egli potrà far valere i propri diritti alle ferie annuali retribuite corrispondenti al periodo durante il quale ha occupato quest’ultimo impiego soltanto nei confronti del nuovo datore di lavoro.

L’articolo 7, paragrafo 2, della direttiva 2003/88 deve essere interpretato nel senso che nel caso in cui il lavoratore reintegrato sia stato nuovamente licenziato oppure nel caso di cessazione del rapporto di lavoro, dopo la reintegrazione, per una qualsiasi ragione, egli ha diritto a un’indennità pecuniaria per le ferie annuali retribuite non godute che sono maturate nel periodo compreso tra il licenziamento illegittimo e la reintegrazione.

Testo della sentenza

Corte di giustizia, II sezione, causa C-658/18, Governo della Repubblica Italiana (status dei giudici di pace italiani), sentenza del 16 luglio 2020

Articolo 267 TFUE – nozione di “organo giurisdizionale” – direttiva 2003/88/CE – articolo 7 – ferie annuali retribuite – direttiva 1999/70/CE – accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato – clausola 2 – nozione di “lavoratore a tempo determinato” – clausola 4 – principio di non discriminazione – nozione di “ragioni oggettive”

Il Giudice di pace (italiano) rientra nella nozione di “giurisdizione di uno degli Stati membri” ai sensi dell’articolo 267 TFUE. Un giudice di pace che, nell’ambito delle sue funzioni, svolge prestazioni reali ed effettive che non sono né puramente marginali né accessorie e per le quali percepisce indennità aventi carattere remunerativo può rientrare nella nozione di “lavoratore”, ai sensi dell’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 2003/88/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 4 novembre 2003 concernente taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro e dell’articolo 31, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. La nozione di “lavoratore a tempo determinato”, contenuta nella clausola 2, punto 1, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso il 18 marzo 1999, che figura nell’allegato della direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, include un giudice di pace, nominato per un periodo limitato, che svolge prestazioni reali ed effettive che non sono né puramente marginali né accessorie e per le quali percepisce indennità aventi carattere remunerativo. Nel caso in cui un giudice di pace rientri nella nozione di “lavoratore a tempo determinato” suddetta e si trovi in una situazione comparabile a quella di un magistrato ordinario, la clausola 4, punto 1, osta ad una normativa nazionale che non prevede il diritto per un giudice di pace di beneficiare di ferie annuali retribuite di 30 giorni, come quello previsto per i magistrati ordinari, a meno che tale differenza di trattamento sia giustificata dalle diverse qualifiche richieste e dalla natura delle mansioni di cui detti magistrati devono assumere la responsabilità, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare.

Testo della sentenza

DIRITTO PENALE

CORTE EUROPEA DEI DIRITTI UMANI

Corte europea dei diritti umani, parere consultivo richiesto dalla Corte costituzionale armena concernente l’uso di tecniche di blanket reference o legislation by reference nella definizione di un reato e gli standard di comparazione tra la legge penale in vigore al momento della commissione del reato e la legge penale emendata, richiesta n. P16-2019-001, 29 maggio 2020.

Art. 7 CEDU – principio di legalità – principio di non retroattività – norme penali in bianco – qualità della legge – principio della lex mitior

Il richiamo di norme extra-penali per la definizione di elementi costitutivi di una fattispecie di reato (c.d. tecniche di blanket reference o legislation by reference) non è di per sé incompatibile con le condizioni previste dall’art. 7 CEDU. La lettura congiunta della norma penale sostanziale e della norma extra-penale richiamata deve, però, permettere all’individuo interessato di prevedere, se necessario con l’ausilio di una consulenza legale, le conseguenze penali delle proprie condotte. In questo senso, è necessario garantire che la fattispecie di reato, pur definita attraverso il richiamo di norme extra-penali, risponda ai generali requisiti di “qualità della legge”, cioè sia sufficientemente precisa, accessibile e prevedibile nella sua applicazione.
Per determinare se, ai fini dell’art. 7 CEDU, una legge introdotta dopo l’asserita commissione di un reato sia più o meno favorevole all’imputato rispetto alla legge in vigore al momento dei fatti, il giudice competente non deve procedere a una comparazione normativa in astratto, dovendo invece aver riguardo alle specifiche circostanze del caso in esame (principio della concretizzazione).

Testo del parere

Corte europea dei diritti umani, I sezione, Citraro e Molino c. Italia, ricorso n. 50988/13, sentenza 4 giugno 2020

Articolo 2 CEDU – diritto alla vita – obblighi positivi – obblighi procedurali – effettività dell’indagine – detenzione carceraria

L’art. 2 della Convenzione (diritto alla vita) impone alle autorità statali, qualora siano a conoscenza o dovrebbero essere a conoscenza di un rischio reale e immediato che una persona privata della libertà attenti alla propria vita, l’obbligo positivo di adottare le misure necessarie per la protezione della vita della persona interessata. Sotto il profilo procedurale, l’art. 2 prevede l’obbligo per lo Stato di garantire un’indagine effettiva sulle cause della morte e sull’eventuale responsabilità delle autorità coinvolte in termini di mancata prevenzione. Per essere definita “effettiva”, l’indagine deve essere adeguata ed indipendente, condotta con celerità e con una diligenza ragionevole, nonché accessibile alla famiglia della vittima (nel caso di specie, la Corte ha ritenuto che le autorità italiane fossero a conoscenza dello stato di particolare vulnerabilità del figlio dei ricorrenti, affetto da disturbi psichici ed in stato di detenzione, nonché del rischio reale ed immediato che lo stesso potesse attentare in maniera fatale alla propria vita, anche alla luce di precedenti atti di autolesionismo e tentativi di suicidio. Per la Corte, le autorità italiane non hanno adottato tutte le misure ragionevolmente necessarie per salvaguardare la vita della persona in stato di detenzione carceraria, ponendo così in essere una violazione dell’art. 2 sotto il profilo sostanziale).

Testo della sentenza (traduzione italiana a cura del Ministero della Giustizia)

Corte europea dei diritti umani, I sezione, Miljević c. Croazia, ricorso n. 68317/13, sentenza 25 giugno 2020

Art. 10 CEDU (libertà di espressione) – art. 6 CEDU (equo processo) – art. 8 CEDU (diritto al rispetto della vita private e familiare) – dichiarazioni diffamatorie dell’imputato – margine di apprezzamento Il diritto al rispetto della vita privata e familiare (art. 8 CEDU) ed il diritto alla libertà di espressione (art. 10 CEDU) godono, in via generale, dello stesso livello di protezione. Tuttavia, quando la libertà d’espressione è esercitata dall’imputato nell’ambito un processo penale, l’art. 10 CEDU deve essere letto alla luce del diritto dell’imputato a un equo processo (art. 6 CEDU), con una conseguente limitazione del margine di apprezzamento delle autorità nazionali. In questi casi, deve essere accordata priorità al diritto dell’imputato di esprimersi liberamente, senza che l’imputato tema di essere indagato per diffamazione, ogniqualvolta le dichiarazioni rese siano connesse alle esigenze di difesa. Per contro, quanto più le dichiarazioni rese sono estranee ai fatti di causa ed alle esigenze di difesa (incluse aggressioni verbali ad un’altra parte del processo o terza parte), tanto più le limitazioni alla libertà di espressione risultano legittime, al fine di tutelare i diritti del terzo alla luce dell’art. 8 CEDU. Nel caso di specie, la Corte ha specificato che la libertà d’espressione dell’imputato deve essere tutelata nella misura in cui quest’ultimo non renda dichiarazioni che, intenzionalmente, diano origine a falsi sospetti su condotte perseguibili riguardanti una parte del procedimento o un terzo. Nel compiere questa valutazione si deve tenere conto della serietà o gravità delle conseguenze per la persona interessata dalle dichiarazioni.

Testo della sentenza

Corte europea dei diritti umani, I sezione, Ghoumid e altri c. Francia, ricorsi nn. 52273/16, 52285/16, 52290/16, 52294/16 e 52302/16, sentenza 25 giugno 2020

Art. 8 CEDU – diritto al rispetto della vita privata e familiare – revoca della cittadinanza – terrorismo – foreign fighters – art. 4, Protocollo n. 7 – ne bis in idem – criteri Engel

Nonostante il diritto alla cittadinanza non trovi una specifica garanzia nella Convenzione, la revoca arbitraria della cittadinanza può, in certe circostanze, rilevare sotto il profilo dell’art. 8 CEDU in ragione del suo impatto sulla vita privata dell’individuo. In primo luogo, si deve valutare se la misura possa considerarsi “arbitraria”: in questo senso, si deve verificare se la revoca sia prevista dalla legge; se sia stata accompagnata dalle necessarie garanzie procedurali, inclusa la possibilità di accesso a un controllo giurisdizionale adeguato; se le autorità abbiano agito in maniera diligente e celere. In secondo luogo, si devono valutare le conseguenze della revoca della cittadinanza sulla vita privata dell’interessato.

La revoca della cittadinanza non può essere considerata una sanzione “sostanzialmente” penale, alla luce dei c.d. criteri Engel e, per tale ragione, la doglianza è stata dichiarata irricevibile ratione materiae (nel caso di specie, la Corte ha ritenuto che lo Stato francese non abbia agito in violazione dell’art. 8 CEDU privando i ricorrenti della cittadinanza in seguito ad una condanna per atti di terrorismo; sotto il profilo delle conseguenze della revoca sulla vita privata degli interessati, la Corte ha valorizzato, tra le altre, la circostanza che i ricorrenti avessero doppia cittadinanza e che dunque la revoca della cittadinanza francese non avrebbe avuto l’effetto di renderli apolidi).

Testo della sentenza

Corte europea dei diritti umani, II sezione, Tërshana c. Albania, ricorso n. 48756/14, sentenza 4 agosto 2020

Art. 2 CEDU – diritto alla vita – profilo sostanziale – profilo procedurale – violenza domestica – violenza contro le donne – effettività delle indagini

L’art. 2 CEDU (diritto alla vita), sotto il profilo procedurale, impone allo Stato l’obbligo positivo di assicurare un’indagine effettiva qualora ci siano ragioni per ritenere che un individuo abbia subito lesioni potenzialmente mortali in circostanze sospette. L’indagine deve essere idonea a ricostruire la causa delle lesioni e, ove opportuno, a pervenire all’identificazione dei responsabili. Quando si ipotizzi la riconducibilità delle lesioni a condotte di violenza domestica o violenza di genere, alle autorità è richiesta una particolare diligenza, che tenga conto della natura specifica della violenza. Nel caso in esame, la Corte ha riscontrato la violazione dell’art. 2 CEDU, sotto il profilo procedurale, in ragione dell’ineffettività dell’indagine penale condotta dalle autorità albanesi nel caso della ricorrente, vittima di gravi lesioni in seguito ad un’aggressione con acido potenzialmente letale in un quadro fattuale che presentava i tratti distintivi di una forma di violenza di genere. La Corte ha inoltre evidenziato, sulla scorta di report internazionali (CEDAW e GREVIO), l’esistenza in Albania di un clima generale propizio alla violenza di genere, sottolineando come, in tale contesto, l’effettività dell’indagine assuma una rilevanza ancora maggiore.

Testo della sentenza

Corte europea dei diritti umani, V sezione, Baldassi e altri c. Francia, ricorsi nn. 15271/16, 15280/16, 15282/16, sentenza 11 giugno 2020

Art. 10 CEDU – diritto alla libertà di espressione – incitazione alla discriminazione economica – interferenza non necessaria in una società democratica

Contrasta con il diritto alla libertà di espressione dei ricorrenti di cui all’art. 10 CEDU la condanna penale riportata dai ricorrenti, impegnati in campagne a sostegno della causa palestinese, per aver incitato pubblicamente alla discriminazione economica promuovendo iniziative di boicottaggio commerciale delle merci provenienti da Israele.

Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto che l’interferenza delle autorità francesi nell’esercizio della libertà d’espressione da parte dei ricorrenti, pur “prevista dalla legge” e finalizzata al perseguimento di un “fine legittimo”, non fosse “necessaria in una società democratica”. Nel tracciare le differenze rispetto al caso Willem c. Francia (ricorso n. 10883/05, sentenza 16 luglio 2009), in cui non erano state riscontrate violazioni convenzionali, la Corte ha valorizzato i seguenti profili: i ricorrenti del caso in esame erano cittadini comuni e, in quanto tali, erano privi delle responsabilità connesse all’esercizio delle funzioni di sindaco; i medesimi non esercitavano un’influenza comparabile a quella di un sindaco sullo svolgimento di servizi comunali; l’appello al boicottaggio da parte dei ricorrenti era volto a stimolare un dibattito tra i clienti dei supermercati. Inoltre, la condotta dei ricorrenti non è sfociata in commenti d’impronta razzista o antisemita, né in azioni d’incitazione all’odio o alla violenza o in atti di violenza, e non ha causato danni ai supermercati coinvolti, i quali d’altra parte non hanno chiesto il risarcimento di danni dinanzi alle corti interne.

Testo della sentenza

FOCUS IMMIGRAZIONE

CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA

Corte di giustizia, Grande sezione, cause riunite C-924/19 PPU e C-925/19 PPU, FMS e.a. contro Országos Idegenrendészeti Főigazgatóság Dél-alföldi Regionális Igazgatóság et Országos Idegenrendészeti Főigazgatóság, sentenza 14 maggio 2020

Politica di asilo e di immigrazione – direttiva 2013/32/UE – domanda di protezione internazionale – Motivi di inammissibilità – procedure di frontiera – direttiva 2013/33/UE – trattenimento – direttiva 2008/115/UE (c.d. direttiva rimpatri) – mezzi di ricorso effettivi – diritto a un ricorso effettivo – articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea – primato del diritto dell’Unione

L’articolo 13 della direttiva 2008/115/CE (c.d. direttiva rimpatri), in combinato disposto con l’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, va interpretato nel senso che osta ad una normativa di uno Stato membro in forza della quale la modifica, da parte di un’autorità amministrativa, del Paese di destinazione figurante in una decisione di rimpatrio anteriore può essere impugnata dal cittadino di un Paese terzo interessato solo mediante un ricorso presentato dinanzi a un’autorità amministrativa, senza che sia garantito un successivo controllo giurisdizionale della decisione di tale autorità. In tale ipotesi, il primato del diritto dell’Unione ed il diritto a una tutela giurisdizionale effettiva, garantito dall’articolo 47 della Carta, vanno interpretati nel senso che impongono al giudice nazionale di dichiararsi competente a conoscere un ricorso diretto a contestare la legittimità, rispetto al diritto dell’Unione, della decisione di rimpatrio consistente in una siffatta modifica del Paese di destinazione.

L’articolo 33 della direttiva 2013/32/UE va interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale che consente di respingere in quanto inammissibile una domanda di protezione internazionale con la motivazione che il richiedente è arrivato nel territorio dello Stato membro interessato attraverso uno Stato in cui non è esposto a persecuzioni o a un rischio di danno grave o in cui è garantito un adeguato livello di protezione. La direttiva 2013/32, in combinato disposto con l’articolo 18 della Carta dei diritti fondamentali e con il principio di leale cooperazione (articolo 4, par. 3, TUE), va interpretata nel senso che, quando una domanda di asilo è stata oggetto di una decisione di rigetto confermata da una decisione giurisdizionale definitiva prima che fosse dichiarata la contrarietà al diritto dell’Unione di detta decisione, l’autorità accertante (ai sensi dell’articolo 2, lettera f), della direttiva 2013/32) non è tenuta a riesaminare d’ufficio tale domanda. Conformemente all’articolo 33, par. 2, lett. d), della direttiva 2013/32, l’esistenza di una sentenza della Corte che dichiara l’incompatibilità con il diritto dell’Unione di una normativa nazionale che consente di respingere una domanda di protezione internazionale in quanto inammissibile (con la motivazione che il richiedente è arrivato nel territorio dello Stato membro interessato attraverso uno Stato in cui non è esposto a persecuzioni o a un rischio di danno grave o in cui è garantito un adeguato livello di protezione) costituisce un elemento nuovo relativo all’esame di una domanda di protezione internazionale, ai sensi di tale disposizione. Inoltre, detta disposizione non è applicabile a una domanda reiterata, ai sensi dell’articolo 2, lett. q), di tale direttiva, quando l’autorità accertante constata che il rigetto definitivo della domanda anteriore è contrario al diritto dell’Unione. A tale constatazione è necessariamente tenuta detta autorità quando la contrarietà discende da una sentenza della Corte o è stata dichiarata, in via incidentale, da un giudice nazionale.

La direttiva 2008/115 e la direttiva 2013/33/UE vanno interpretate nel senso che l’obbligo imposto a un cittadino di un Paese terzo di soggiornare in modo permanente in una zona di transito avente un perimetro circoscritto e ristretto, all’interno della quale i movimenti di tale cittadino sono limitati e sorvegliati e che lo stesso non può legalmente abbandonare di sua iniziativa, qualunque sia la sua direzione, configura una privazione di libertà, caratteristica di un “trattenimento” ai sensi delle direttive di cui trattasi. L’articolo 43 della direttiva 2013/32 va interpretato nel senso di non autorizzare il trattenimento di un richiedente protezione internazionale in una zona di transito per una durata superiore a quattro settimane.

Gli articoli 8 e 9 della direttiva 2013/33 vanno interpretati nel senso che ostano, in primo luogo, a che un richiedente protezione internazionale sia trattenuto per il solo fatto che non può sovvenire alle proprie necessità, in secondo luogo, a che tale trattenimento abbia luogo senza la previa adozione di una decisione motivata che disponga il trattenimento e senza che siano state esaminate la necessità e la proporzionalità di una siffatta misura, e, in terzo luogo, a che non esista alcun controllo giurisdizionale della legittimità della decisione amministrativa che dispone il trattenimento di tale richiedente. Per contro, l’articolo 9 di tale direttiva deve essere interpretato nel senso che non impone che gli Stati membri fissino una durata massima per il mantenimento del trattenimento purché il loro diritto nazionale garantisca che il trattenimento duri solo fintantoché il motivo che lo giustifica permane applicabile e purché gli adempimenti amministrativi inerenti a tale motivo siano espletati con diligenza.

L’articolo 15 della direttiva 2008/115 va interpretato nel senso che osta, in primo luogo, a che un cittadino di un Paese terzo sia trattenuto per il solo fatto che è oggetto di una decisione di rimpatrio e che non può sovvenire alle proprie necessità, in secondo luogo, a che tale trattenimento abbia luogo senza la previa adozione di una decisione motivata che disponga una siffatta misura e senza che siano state esaminate la sua necessità e proporzionalità, in terzo luogo, a che non esista alcun controllo giurisdizionale della legittimità della decisione amministrativa che dispone il trattenimento e, in quarto luogo, a che tale stesso trattenimento possa oltrepassare i 18 mesi ed essere mantenuto anche se il rimpatrio non è più in corso o se non ha avuto luogo un espletamento diligente delle sue modalità.

Il primato del diritto dell’Unione ed il diritto a una tutela giurisdizionale effettiva (articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali) vanno interpretati nel senso che, in mancanza di disposizioni nazionali che prevedano un controllo giurisdizionale della legittimità di una decisione amministrativa che dispone il trattenimento di richiedenti protezione internazionale o di cittadini di Paesi terzi la cui domanda di asilo è stata respinta, impongono al giudice nazionale di dichiararsi competente a pronunciarsi sulla legittimità di un siffatto trattenimento e lo autorizzano a rilasciare immediatamente le persone interessate se lo stesso reputa che tale misura costituisca un trattenimento contrario al diritto dell’Unione.

L’articolo 26 della direttiva 2013/33 va interpretato nel senso che impone che il richiedente protezione internazionale il cui trattenimento, giudicato illegittimo, abbia avuto fine possa far valere, presso il giudice competente in forza del diritto nazionale, il suo diritto a ottenere o un sussidio economico che gli consenta di disporre di un alloggio, o un alloggio in natura, e tale giudice dispone, in forza del diritto dell’Unione, della possibilità di accordare misure provvisorie in attesa della sua decisione definitiva. Il principio del primato del diritto dell’Unione e il diritto a una tutela giurisdizionale effettiva (articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali), vanno interpretati nel senso che, in mancanza di disposizioni nazionali che prevedano un controllo giurisdizionale del diritto all’alloggio (ai sensi dell’articolo 17 della direttiva 2013/33), impongono al giudice nazionale di dichiararsi competente a conoscere del ricorso diretto a garantire un siffatto diritto.

Testo della sentenza

Corte di giustizia, IX sezione, WT c. Subdelegación del Gobierno en Guadalajara, causa C448/19, sentenza 11 giugno 2020

Status dei cittadini di Paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo – direttiva 2003/109/CE – articolo 12 – adozione di una decisione di allontanamento nei confronti di un soggiornante di lungo periodo – direttiva 2001/40/CE – riconoscimento reciproco delle decisioni di allontanamento dei cittadini di Paesi terzi

L’articolo 12 della direttiva 2003/109/CE deve essere interpretato nel senso che esso osta ad una normativa di uno Stato membro che prevede l’allontanamento di qualsiasi cittadino di un Paese terzo titolare di un permesso di soggiorno di lunga durata che abbia commesso un reato punibile con una pena restrittiva della libertà personale di almeno un anno. In linea con l’interpretazione della giurisprudenza nazionale con riferimento alla direttiva 2001/40/CE (sul riconoscimento reciproco delle decisioni di allontanamento dei cittadini di Paesi terzi), non occorre esaminare se tale cittadino, proveniente da un Paese terzo, costituisca una minaccia effettiva e sufficientemente grave per l’ordine pubblico o la pubblica sicurezza, così come non è necessario considerare la durata del suo soggiorno nel territorio di tale Stato membro, la sua età, le conseguenze per il medesimo e per i suoi familiari e i suoi vincoli con lo Stato membro di soggiorno o l’assenza di vincoli con il suo Paese d’origine.

Testo della sentenza

Corte di giustizia, IV sezione, causa C-36/20 PPU, Ministerio Fiscal, sentenza 25 giugno 2020

Politica di asilo e di immigrazione – procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale – direttiva 2013/32/UE – accesso alla procedura – nozione di ‘altre autorità’ – norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale – direttiva 2013/33/UE – trattenimento del richiedente – motivi del trattenimento

L’articolo 6, par. 1, secondo e terzo comma, della direttiva 2013/32/UE, deve essere interpretato nel senso che un giudice istruttore chiamato a pronunciarsi sul trattenimento di un cittadino di un Paese terzo in situazione irregolare ai fini del suo respingimento rientra nel novero delle ‘altre autorità’ contemplate da tale disposizione, preposte a ricevere domande di protezione internazionale, ma non competenti, a norma del diritto nazionale, per la registrazione. Inoltre, in qualità di ‘altra autorità’, tale giudice istruttore deve informare i cittadini di Paesi terzi in situazione irregolare delle modalità di inoltro di una domanda di protezione internazionale e, qualora questi abbiano manifestato una tale volontà, trasmettere il fascicolo all’autorità competente ai fini della registrazione di detta domanda.

L’articolo 26 della direttiva 2013/32 e l’articolo 8 della direttiva 2013/33 devono essere interpretati nel senso che un cittadino di un Paese terzo in situazione irregolare che abbia manifestato la volontà di chiedere la protezione internazionale dinanzi a un’“altra autorità”, ai sensi dell’articolo 6, par. 1, secondo comma, della direttiva 2013/32, non può essere trattenuto per un motivo diverso da quelli previsti all’articolo 8, par. 3, della direttiva 2013/33, quale la mancanza di posti alloggio in un centro di accoglienza.

Testo della sentenza

Corte di giustizia dell’Unione europea, I sezione, WM c. Stadt Frankfurt am Main, causa C18/19, sentenza 2 luglio 2020

Direttiva 2008/115/CE – norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno è irregolare – condizioni di trattenimento – articolo 16, paragrafo 1 – trattenimento in un istituto penitenziario ai fini dell’allontanamento – cittadino di un Paese terzo che rappresenta una minaccia grave per l’ordine pubblico o la pubblica sicurezza

L’articolo 16, paragrafo 1, della direttiva 2008/115/CE dev’essere interpretato nel senso che esso non osta ad una normativa nazionale che consente il trattenimento di un cittadino di Paesi terzi, il cui soggiorno è irregolare, in un istituto penitenziario ai fini dell’allontanamento, separato dai detenuti ordinari, per il motivo che egli costituisce una minaccia reale, attuale e sufficientemente grave per un interesse fondamentale della società o per la sicurezza interna o esterna dello Stato membro interessato.

Testo della sentenza

Corte di giustizia, V sezione, causa C-517/17, Milkiyas Addis contro Bundesrepublik Deutschland, sentenza 16 luglio 2020

Politica d’asilo – procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale – direttiva 2013/32/UE – obbligo di dare al richiedente protezione internazionale la facoltà di sostenere un colloquio personale prima dell’adozione di una decisione di inammissibilità – violazione dell’obbligo durante il procedimento di primo grado – conseguenze

Gli articoli 14 e 34 della direttiva 2013/32/UE che prevedono l’obbligo di dare al richiedente protezione internazionale la facoltà di sostenere un colloquio personale prima dell’adozione di una decisione di inammissibilità (ex articolo 33, par. 2, lettera a), della direttiva), vanno interpretati nel senso che ostano a una normativa nazionale per cui la violazione di quell’obbligo non comporta l’annullamento della decisione di inammissibilità ed il rinvio della causa dinanzi all’autorità accertante. Ciò, a meno che detta normativa consenta a tale richiedente, nell’ambito del procedimento di ricorso avverso la decisione di cui trattasi, di esporre di persona tutti i suoi argomenti contro detta decisione nel corso di un’audizione che rispetti le condizioni e le garanzie fondamentali applicabili (ai sensi dell’articolo 15 della direttiva) e a meno che tali argomenti non siano atti a modificare la stessa decisione.

Testo della sentenza

Corte di giustizia, III sezione, cause riunite C-113/19, C-136/19 e C-137/19, B. M. M. e a. contro État belge, sentenza 16 luglio 2020

Diritto al ricongiungimento familiare – direttiva 2003/86/CE – nozione di “figlio minorenne” – articolo 24, par. 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea – interesse superiore del minore – articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali – figli del soggiornante divenuti maggiorenni nelle more del procedimento decisionale o del procedimento giurisdizionale avverso la decisione di rigetto della domanda di ricongiungimento familiare

L’articolo 4, par. 1, primo comma, lettera c), della direttiva 2003/86/UE va interpretato nel senso che la data di riferimento per determinare se un cittadino di un Paese terzo o un apolide non coniugato sia un figlio minorenne, ai sensi di tale disposizione, è quella in cui è presentata la domanda di ingresso e di soggiorno ai fini del ricongiungimento familiare per figli minorenni e non quella in cui le autorità competenti di tale Stato membro statuiscono su tale domanda, eventualmente dopo un ricorso avverso la decisione di rigetto di siffatta domanda.

L’articolo 18 della stessa direttiva, letto alla luce dell’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, va interpretato nel senso che esso osta a che il ricorso avverso il rigetto di una domanda di ricongiungimento familiare di un figlio minorenne sia dichiarato irricevibile per il solo motivo che il figlio è divenuto maggiorenne nelle more del procedimento giurisdizionale.

Testo della sentenza

CORTE EUROPEA DEI DIRITTI UMANI

Corte europea dei diritti umani, Grande Camera, M.N. e altri c. Belgio, ricorso n. 3599/18, sentenza 5 maggio 2020

Visto d’ingresso – Schengen – richiesta protezione internazionale – asilo – respingimento – giurisdizione – inammissibilità – art. 1 CEDU – obbligo di rispettare i diritti dell’uomo – accesso alle procedure di asilo

La richiesta di un visto d’ingresso c.d. umanitario presentata presso il consolato di uno Stato parte della CEDU al fine di raggiungere il territorio di tale Stato per inoltrare all’arrivo una richiesta di asilo non è una circostanza sufficiente a determinare l’applicabilità della Convenzione. Il rifiuto del visto da parte dello Stato parte non equivale all’esercizio de facto della giurisdizione. Nel caso di specie la Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile in quanto il collegamento tra i richiedenti (siriani) e detto Stato parte (Belgio) sarebbe stato determinato dalla libera iniziativa degli stessi ricorrenti. Per la Corte, una pronuncia di ammissibilità del ricorso avrebbe significato, da un lato, sancire l’applicazione universale della CEDU sulla base di scelte unilaterali dei singoli e, dall’altro, un obbligo quasi illimitato per gli Stati di ingresso nel proprio territorio di individui che potrebbero essere a rischio di trattamenti contrari alla Convenzione al di fuori della loro giurisdizione. La Corte ha ritenuto che non sia possibile lamentare una violazione dell’articolo 3 (proibizione della tortura) e dell’articolo 13 CEDU (diritto ad un ricorso effettivo) per difetto di giurisdizione, precisando che una tale decisione non pregiudica gli sforzi compiuti dagli Stati parti nel facilitare l’accesso alle procedure di asilo attraverso le ambasciate o le rappresentanze consolari.

Testo della sentenza (in inglese)

Corte europea dei diritti umani, V sezione, M.S. c. Slovacchia e Ucraina, ricorso n. 40503/2007, 17189/11, sentenza 11 giugno 2020

Articolo 5 CEDU (diritto alla libertà e alla sicurezza) – mancanza di informazioni al richiedente in una lingua a lui comprensibile – assenza di un interprete o di un avvocato nel procedimento

Costituisce una violazione dell’articolo 5 CEDU paragrafi 2 e 4 (diritto alla libertà e alla sicurezza) l’omessa traduzione del provvedimento di espulsione in una lingua comprensibile al destinatario del provvedimento di espulsione unitamente alla mancanza di un’interprete o di un avvocato del procedimento. In presenza delle sole dichiarazioni del ricorrente sul punto, la prova di tali omissioni può essere riscontrata in report autorevoli che descrivono la prassi di limitazioni all’accesso alla consulenza legale presso le strutture di detenzione della Guardia di frontiera.

Testo della sentenza (in inglese)

Corte europea dei diritti umani, XIII sezione, Muhammad Saqawat c. Belgio, ricorso n. 54962/2018, sentenza 30 giugno 2020

Articolo 5 CEDU (diritto alla libertà e alla sicurezza) – trattenimento di uno straniero al fine di impedirgli di entrare irregolarmente nel territorio e di allontanarlo dallo stesso – mancanza delle necessarie garanzie di effettività e tempestività

L’emissione di un nuovo ordine di detenzione non può annullare quello emanato precedentemente, privo di valida proroga, e costituisce una violazione dell’articolo 5, paragrafo 1, CEDU. La normativa interna che autorizza la privazione della libertà personale deve essere sufficientemente chiara, precisa e prevedibile nella sua applicazione. La mancanza di una decisione definitiva e rapida da parte dell’autorità giudiziaria sulla legittimità della detenzione del ricorrente costituisce violazione dell’articolo 5, paragrafo 4, CEDU. La possibilità per il ricorrente di far constatare l’illegittimità della sua detenzione presso un Tribunale ordinario non esclude la suddetta violazione, attesa l’esigenza di celerità della decisione.

Testo della sentenza (in francese)

Corte europea dei diritti umani, V sezione, N.H. e altri c. Francia, ricorso n. 28820/2013, sentenza 2 luglio 2020

Condizioni di vita dei richiedenti asilo senza fissa dimora – mancanza di sostentamento materiale e finanziario – articolo 3 CEDU – formalizzazione richiesta asilo

Il diritto al sostegno materiale ed economico in base al diritto interno sussiste a condizione che i beneficiari siano autorizzati a risiedere nel territorio nazionale, come richiedenti asilo registrati. Il notevole lasso di tempo intercorso tra la presentazione delle domande di asilo e la data in cui le stesse vengono formalizzate dalle autorità competenti espone i richiedenti a situazioni di irregolarità sul territorio nazionale oltre che al rischio di essere arrestati o espulsi. Tale status, peraltro, impedisce l’accesso a strutture sanitarie o altri supporti economici e costringe i richiedenti a vivere in condizioni contrarie all’articolo 3 CEDU.

Testo della sentenza (in francese)

Corte europea dei diritti umani, Grande Camera, M.K. e altri c. Polonia, ricorsi nn. 40503/2007, 42902/2017 e 43643/17, sentenza 23 luglio 2020

Articolo 3 CEDU – respingimento alla frontiera – espulsione – rifiuto domanda di protezione internazionale – divieto di espulsione durante il procedimento di esame della domanda di protezione internazionale – articolo 4 del Protocollo n. 4 (divieto di espulsioni collettive) – diritto ad un ricorso effettivo. L’espulsione di un gruppo di stranieri richiedenti asilo verso un Paese terzo senza l’esame della domanda di protezione internazionale e senza la previa verifica delle procedure di asilo nel Paese di destinazione costituisce una violazione dell’articolo 3 CEDU (proibizione delle tortura). L’allontanamento dei medesimi equivale ad un’espulsione collettiva vietata dall’articolo 4 del Protocollo n. 4 della CEDU (divieto di espulsioni collettive di stranieri) per aver omesso le autorità nazionali di valutare le singole posizioni dei richiedenti. Inoltre, la mancanza di accesso a mezzi di ricorso efficaci per contestare il rifiuto di ingresso equivale ad una violazione dell’articolo 13 della CEDU (diritto ad un ricorso effettivo) in combinato disposto con l’articolo 3 e l’articolo 4 del Protocollo n. 4.

Testo della sentenza (inglese)

CORTE DI CASSAZIONE

Cassazione civile, III sezione, ordinanza n. 8571, 6 maggio 2020

Protezione umanitaria – condizione di vulnerabilità – valutazione caso per caso

In tema di concessione del permesso di soggiorno per ragioni umanitarie, la condizione di “vulnerabilità” del richiedente deve essere verificata caso per caso, all’esito di una valutazione individuale della sua vita privata in Italia, comparata con la situazione personale vissuta prima della partenza ed alla quale si troverebbe esposto in ipotesi di rimpatrio, non potendosi tipizzare le categorie soggettive meritevoli di tale tutela che è, invece, atipica e residuale, nel senso che copre tutte quelle situazioni in cui, pur non sussistendo i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria, possano sussistere condizioni di vulnerabilità.

Testo dell’ordinanza

Cassazione civile, I sezione, ordinanza n. 9815, 26 maggio 2020

Protezione internazionale – condizione di omosessualità – previsione dell’omosessualità come reato – atto di persecuzione – minacce di condotte violente od esposizione a trattamenti inumani e degradanti – protezione sussidiaria

In tema di protezione internazionale, l’allegazione da parte dello straniero di una condizione personale di omosessualità impone che il giudice si ponga in una prospettiva dinamica e non statica, vale a dire che verifichi la sua concreta esposizione a rischio, sia in relazione alla rilevazione di un vero e proprio atto persecutorio, ove nel Paese di origine l’omosessualità sia punita come reato e sia prevista una pena detentiva sproporzionata o discriminatoria, sia in relazione alla configurabilità della protezione sussidiaria, che può verificarsi anche in mancanza di una legislazione esplicitamente omofoba ove il soggetto sia esposto a gravissime minacce da agenti privati e lo Stato non sia in grado di proteggerlo, dovendosi evidenziare che tra i trattamenti inumani e degradanti lesivi dei diritti fondamentali della persona omosessuale non vi è solo il carcere ma vi sono anche gli abusi medici, gli stupri ed i matrimoni forzati, tenuto conto che non è lecito pretendere che la persona tenga un comportamento riservato e nasconda la propria omosessualità.

Testo dell’ordinanza

Cassazione civile, I sezione, ordinanza n. 10908, 8 giugno 2020
Condizione dello straniero – giudizio di credibilità del racconto del richiedente – prognosi negativa

– elementi isolati o secondari

In tema di protezione internazionale, la prognosi negativa circa la credibilità del richiedente non può essere motivata soltanto con riferimento ad elementi isolati e secondari o addirittura insussistenti quando, invece, viene trascurato un profilo decisivo e centrale del racconto (nella specie la S.C. ha cassato la decisione di merito che aveva escluso la protezione valutando negativamente l’impreciso riferimento ai luoghi ed all’organizzazione della setta degli Ogboni, senza dare rilievo alla compatibilità tra le ferite esistenti sul corpo del richiedente e le lesioni da arma da taglio procurategli dai suoi aggressori a causa del suo credo religioso).

Testo dell’ordinanza

Cassazione civile, I sezione, ordinanza n. 11743, 17 giugno 2020
Condizione dello straniero – protezione internazionale – protezione umanitaria – situazione di

vulnerabilità – minore età del richiedente – rilevanza

In tema di protezione umanitaria, il giudice, ai fini dell’individuazione di eventuali situazioni di vulnerabilità, nell’accertare il livello d’integrazione raggiunto in Italia dal richiedente, comparato con la situazione in cui versava prima dell’abbandono del Paese di origine, deve valutarne la minore età, in considerazione della particolare tutela di cui gode nel nostro ordinamento il migrante minorenne, in specie ove sia non accompagnato, trattandosi di condizione di “vulnerabilità estrema”, prevalente rispetto alla qualità di straniero illegalmente soggiornante nel territorio dello Stato, avuto riguardo all’assenza di familiari maggiorenni in grado di prendersene cura ed al conseguente obbligo dello Stato di adottare tutte le misure necessarie per non incorrere nella violazione dell’articolo 3 CEDU.

Testo dell’ordinanza

Cassazione civile, III sezione, ordinanza n. 11935, 19 giugno 2020
Condizione dello straniero – domanda di protezione sussidiaria – assorbimento della domanda di

protezione umanitaria

In materia di protezione internazionale, la decisione sulla domanda di protezione non assorbe quella sulla domanda di protezione umanitaria né in senso proprio, in quanto non fa venir meno l’interesse del richiedente asilo, né in senso improprio, perché il rigetto della prima non esclude la necessità o la possibilità di provvedere sulla seconda e non comporta, di per sé, un implicito rigetto della stessa.

Testo della sentenza

– Cassazione civile, III sezione, ordinanza n. 12135, 22 giugno 2020
Condizioni socio-politiche del Paese d’origine – integrazione istruttoria officiosa – vizio di

motivazione apparente – informazioni aggiornate

Nei giudizi di protezione internazionale, a fronte del dovere del richiedente di allegare, produrre o dedurre tutti gli elementi e la documentazione necessari a motivare la domanda, la valutazione delle condizioni socio-politiche del Paese d’origine del richiedente deve avvenire, mediante integrazione istruttoria officiosa, tramite l’apprezzamento di tutte le informazioni, generali e specifiche di cui si dispone pertinenti al caso, aggiornate al momento dell’adozione della decisione, sicché il giudice del merito non può limitarsi a valutazioni solo generiche ovvero omettere di individuare le specifiche fonti informative da cui vengono tratte le conclusioni assunte, potendo incorrere in tale ipotesi, la pronuncia, ove impugnata, nel vizio di motivazione apparente. Nei giudizi aventi ad oggetto domande di protezione internazionale e di accertamento del diritto al permesso per motivi umanitari, la verifica delle condizioni socio-politiche del Paese di origine non può fondarsi su informazioni risalenti ma deve essere aggiornata, anche mediante integrazione istruttoria ufficiosa, al momento della decisione.

Cassazione civile, I sezione, ordinanza n. 13253, 30 giugno 2020

Condizione dello straniero – informazioni sul Paese di origine – fonti – tassatività delle indicazioni di cui all’articolo 8 del d. lgs. n. 25 del 2008 – esclusione – utilizzazione di concorrenti canali di informazione

In tema di protezione internazionale, l’indicazione delle fonti di cui all’articolo 8 del d. lgs. n. 25 del 2008 non ha carattere esclusivo, ben potendo le informazioni sulle condizioni del Paese estero essere tratte da concorrenti canali di informazione, quali ad esempio, i siti internet delle principali organizzazioni non governative attive nel settore dell’aiuto e della cooperazione internazionale, come Amnesty International e Medici senza frontiere.

Testo dell’ordinanza

Cassazione civile, I sezione, ordinanza n. 17118, 13 agosto 2020

Condizione dello straniero – protezione umanitaria – condizioni di salute

Ai fini del riconoscimento del permesso di soggiorno per ragioni umanitarie (nella disciplina di cui all’articolo 5, comma 6, d.lgs. n. 286 del 1998, applicabile ratione temporis), la condizione di vulnerabilità per motivi di salute richiede, alla luce della giurisprudenza della Corte di giustizia (Corte di giustizia, Grande sezione, causa C-353/16, sentenza 24 aprile 2018), l’accertamento della gravità della patologia, la necessità ed urgenza delle cure nonché la presenza di gravi carenze del sistema sanitario del Paese di provenienza.

Testo dell’ordinanza

Cassazione civile, II sezione, ordinanza n. 17185, 14 agosto 2020
Condizione dello straniero – protezione umanitaria – vulnerabilità – valutazione – minore età del

richiedente al momento dell’ingresso in Italia

In tema di protezione umanitaria, il giudice, ai fini dell’accoglimento della domanda, deve valutare la minore età del richiedente al momento del suo ingresso in Italia, trattandosi di condizione personale di particolare vulnerabilità la quale, al pari di altre (come lo stato di gravidanza, l’età avanzata, la disabilità, etc.), determina, pur in mancanza di un concreto rischio per la vita, l’integrità fisica o la libertà individuale, il pericolo, in caso di rimpatrio, di una significativa ed effettiva compromissione dei diritti fondamentali inviolabili del richiedente.

Testo dell’ordinanza

Cassazione civile, II sezione, ordinanza n. 17186, 14 agosto 2020
Condizione dello straniero – riduzione in schiavitù – status di rifugiato – sussistenza – liceità o

tolleranza nel Paese di origine – irrilevanza

In tema di protezione internazionale, la riduzione di una persona in stato di schiavitù configura un trattamento persecutorio, rilevante ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato, non potendosi attribuire alcun rilievo alla liceità o tolleranza di quel trattamento nel Paese di provenienza del richiedente, poiché altrimenti si vanificherebbe l’essenza stessa della tutela internazionale, che è proprio quella di assicurare al richiedente, in fuga dal proprio Paese, la tutela dei suoi diritti inalienabili di persona, tra i quali certamente rientra quello alla libertà personale.

Testo dell’ordinanza

Cassazione civile, II sezione, ordinanza n. 17748, 25 agosto 2020
Valutazione di credibilità – dichiarazioni richiedente – criteri articolo 3, comma 5, d.lgs. n.

251/2007 – informazioni sul Paese di origine

Nell’esaminare la domanda di protezione internazionale ed umanitaria, la valutazione di credibilità delle dichiarazioni del richiedente, condotta alla stregua dei criteri indicati nell’articolo 3, comma 5, del d.lgs. n. 251 del 2007, non è esclusa dall’esistenza di mere discordanze o contraddizioni su aspetti secondari o isolati quando si ritiene sussistente l’accadimento nel suo complesso, sulla base delle informazioni sul Paese di provenienza.

Cassazione civile, II sezione, ordinanza n. 17963, 27 agosto 2020
Regolamento UE n. 604/2013 (regolamento Dublino III) – obblighi informativi – effettività

dell’informazione – trattamento uniforme della procedura di trasferimento

Nei confronti dello straniero sottoposto a procedimento di trasferimento presso altro Stato membro dell’Unione Europea che sia competente ad esaminare la sua domanda di protezione internazionale vanno sempre assicurate le specifiche garanzie informative e partecipative previste dagli articoli 4 e 5 del regolamento UE 604/2013, che sono finalizzate ad assicurare l’effettività dell’informazione e l’uniformità della stessa, e del trattamento del procedimento di trasferimento, in tutto il territorio dell’Unione europea. Ne consegue la nullità del provvedimento di trasferimento adottato all’esito di un procedimento in cui non siano state rispettate le prescrizioni di cui ai richiamati articoli 4 e 5 del regolamento UE 604/2013, senza che possa darsi rilievo all’eventuale conoscenza aliunde conseguita dallo straniero circa le sue garanzie e prerogative in relazione al procedimento di cui si discute.

Non rileva, ai fini della nullità del provvedimento finale, la mancata allegazione o dimostrazione, da parte dell’interessato, di uno specifico vulnus al suo diritto di azione e difesa in giudizio, poiché il rispetto delle prescrizioni del regolamento UE n. 604/2013, alla luce delle superiori esigenze di assicurazione del trattamento uniforme della procedura di trasferimento in tutto il territorio dell’Unione europea che le ispirano, è rimesso alla buona prassi delle autorità degli Stati membri e non può essere condizionato dalle modalità con cui, in concreto, i singoli interessati reagiscono rispetto alle eventuali violazioni della predetta normativa.

GIURISPRUDENZA DI MERITO

Tribunale di Milano, XII sezione, Sezione specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione europea, n. 3165/2020, 14 maggio 2020, R.G. n. 8415/2020-1

Covid 19 – sospensione – rigetto domanda reiterata – protezione internazionale – servizio sanitario nazionale – salute individuale e collettiva

L’eccezionale situazione di pandemia giustifica la sospensione del provvedimento di rigetto della Commissione territoriale a fronte di una domanda reiterata di protezione internazionale. La mancata sospensione esporrebbe infatti il richiedente ad un pregiudizio grave ed irreparabile per la salute individuale e collettiva, quale la cancellazione dall’iscrizione al servizio sanitario nazionale: il ricorrente potrebbe infatti fruire solo di cure ospedaliere, urgenti o essenziali, e non potrebbe obbedire alle prescrizioni dell’Istituto Superiore di Sanità, rivolgendosi al medico di famiglia per l’avvio delle procedure di monitoraggio del rischio per la salute individuale e collettiva che le suddette misure mirano invece a prevenire.

Tribunale di Bari, Sezione specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione europea, n. 3341/2020, 16 maggio 2020, R.G. 15115/2018

Protezione umanitaria – Bangladesh – povertà estrema – grave vulnerabilità – valutazione comparativa – integrazione lavorativa

Un eventuale rimpatrio esporrebbe il ricorrente ad un traumatico e grave regresso socio- economico e sicuramente ad una situazione di grave vulnerabilità e di privazione dei diritti umani fondamentali, considerando – nell’ambito della valutazione comparativa (Cass. civ., Sez. un., n. 29459/2019) – la situazione di gravissima povertà in cui si trovava nel suo Paese (situazione che si inserisce con connotazioni personali in un contesto socio-economico complessivo non favorevole), dovendosi anche tenere presente che il richiedente non avrebbe nemmeno un luogo in cui vivere; di contro, in Italia il ricorrente ha avviato un serio percorso di integrazione lavorativa percependo anche una retribuzione congrua ad assicurare un’esistenza dignitosa, riuscendo anche aiutare la propria famiglia (ragione per la quale, tra l’altro, ha deciso di lasciare il Bangladesh).

Corte di Appello di Bologna, II sezione civile, sentenza n. 1582, 8 giugno 2020

Condizione di genitore singolo con figlio minore – protezione umanitaria – articolo 5 co. 6 d. lgs. 286/1998 – permesso di soggiorno per “casi speciali”

La condizione di genitore singolo con figlio minore è normativamente tipizzata tra le situazioni di vulnerabilità̀, risultando inclusa, ai sensi dell’articolo 2 comma 11 lett. h bis) del d. lgs. n. 25 del 2008 (come modificato ad opera dal d. lgs. 18 agosto 2015, n. 142, articolo 25, comma 1, lett. b n. 1), nella categoria “persone vulnerabili”, accanto ai minori, ai minori non accompagnati, ai disabili, agli anziani, alle donne in stato di gravidanza, alle persone affette da gravi malattie o da disturbi mentali, alle vittime della tratta di esseri umani, alle persone che hanno subito torture, stupri o altre forme gravi di violenza psicologica, fisica o sessuale, alle vittime di mutilazioni genitali.

Alla luce dell’espressa previsione di legge, considerata l’età del bambino unitamente all’attività lavorativa del genitore, deve ritenersi giustificata la concessione di un permesso di soggiorno per motivi umanitari, sussistendo le esigenze di tutela connesse alla particolare condizione della richiedente.

Tribunale di Genova, XI sezione civile, decreto n. 1755/2020, 11 giugno 2020 Protezione umanitaria – condizione giovani donne nigeriane – stigma sociale – fattori oggettivi di

vulnerabilità – violazione dei diritti umani – grave carenza nel sistema di polizia

La gravità della vicenda personale che ha determinato la ricorrente alla partenza in giovane età e la situazione del Paese di origine complessivamente insicura permettono di ritenere sussistenti i presupposti per una protezione umanitaria. Invero, a prescindere dalla credibilità del racconto, le donne provenienti dal sud della Nigeria, nelle condizioni economiche e di età della ricorrente, nel caso di rimpatrio, sono vittime di una grave stigmatizzazione a livello sociale (ritenendosi, in ogni caso, che le stesse nel corso del viaggio e/o in Europa abbiano esercitato la prostituzione), possono essere rifiutate dalle famiglie di origine o costrette da queste a farsi sfruttare, sono spesso vittime di rapine a mano armata, stupri e/o violenze, ritenendosi che siano in possesso di denaro guadagnato con il loro lavoro o ricevuto come indennità al momento del rimpatrio. Inoltre, in relazione ai fattori oggettivi di vulnerabilità, assume rilevanza la situazione di violazione dei diritti in Nigeria e di particolare insicurezza della regione, prevalentemente dominata dal conflitto del Delta del Niger produttori di petrolio, dove la popolazione locale non beneficia del reddito dell’industria petrolifera, assumendo altresì rilevanza la situazione di gravissima insicurezza e di grave carenza nel sistema di polizia.

Corte d’appello di Venezia, IX sezione civile, sentenza n. 1446, 15 giugno 2020 Condizioni di salute – disturbi mentali – cure psichiatriche – verifica assistenza sanitaria nel Paese

di origine – giudizio comparativo – protezione umanitaria

La situazione di vulnerabilità può essere determinata anche dalle condizioni di salute. La storia clinica del paziente richiedente protezione internazionale riportata nella relazione psichiatrica e la necessità di mantenere l’equilibrio attualmente raggiunto, di proseguire con la terapia psichiatrica e con quella farmacologica, alla luce del livello di assistenza sanitaria in Senegal per i disturbi mentali, così come riportato dal richiedente, giustifica il riconoscimento della protezione umanitaria.

Tribunale di Bologna, Sezione specializzata in materia di Immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione cittadini UE, decreto n. 4056/2020, 25 giugno 2020

Protezione umanitaria – donna vittima di esperienze traumatiche – Paese di transito – fattore di vulnerabilità costituito dal genere

Ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria rileva il percorso certamente difficile e traumatico, reso ancor più doloroso dal vissuto personale, dall’opposizione dei familiari al matrimonio con il compagno, dall’aborto, dalle violenze e dai, pur se non gravi, problemi di salute. Un fattore di particolare vulnerabilità è certamente costituito dal genere: il solo fatto di essere donna espone la migrante a specifici ulteriori aspetti di vulnerabilità fisica e psicologica. La ricorrente, inoltre, pur avendo ancora familiari in Nigeria, è priva di fatto di qualsiasi appoggio familiare effettivo. E, ancora, l’umiliazione delle violenze sessuali subite in Libia rendono, se possibile, ancora più fragile la condizione della ricorrente. Tale fragilità, come chiarito dalla più recente giurisprudenza di legittimità (Cass. civ., n. 1104/2020) ed in ossequio a quanto disposto dall’articolo 8 del d. lgs. 25/08, impone al giudice l’esame della domanda di protezione anche alla luce di informazioni precise ed aggiornate sulla situazione generale non solo del Paese di provenienza ma anche di quelli di eventuale transito. Irrilevante, infatti, è il luogo in cui le violenze sono state consumate, anche se tale luogo sia un Paese di transito e non quello di eventuale rimpatrio, come nel caso di specie: ciò che rileva è la fragilità scaturita non solo dalla situazione vissuta nel proprio Paese di origine (la cd. spinta migratoria), ma anche di quelle derivanti da esperienze gravemente traumatiche occorse durante il cammino attraverso i Paesi di transito.

Tribunale di Roma, XVIII sezione civile, decreto 1 luglio 2020, R.G. n. 12703/2019 Status di rifugiato – LGBT – appartenenza ad un determinato gruppo sociale – discriminazioni –

protezione inadeguata nello Stato di origine – agente persecutore

Il cumulo delle discriminazioni subite nel corso della vita della ricorrente sin dagli anni della scuola e sino al primo periodo di permanenza in Italia raggiungono il livello di persecuzione che giustifica il riconoscimento dello status di rifugiata. In tale contesto lo Stato di provenienza non solo non è in grado di offrire una protezione adeguata ma lo stesso assume ruolo di agente persecutore.

Tribunale di Ancona, ordinanza 10 luglio 2020, R.G. n. 5697/2019 Protezione sussidiaria – conflitto armato interno – violenza indiscriminata – Mali

La grave situazione di violenza indiscriminata vigente in Mali, a prescindere dalla zona di provenienza, determina il riconoscimento della protezione sussidiaria, in quanto le instabilità ed i conflitti locali non interessano più solo la zona settentrionale del Paese. Il livello di violenza che interessa il Mali ha raggiunto negli ultimi anni un’intensità così elevata che un civile correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire danni gravi.

Tribunale di Bari, Sezione diritti della persona e immigrazione, ordinanza 15 luglio 2020, R.G. n. 5118/2020

Richiesta reiterata di protezione internazionale – comportamento silente ed omissivo della Questura – ritardo nell’inizio della procedura di esame della domanda – violazione articolo 10 Cost. comma 3

La condotta omissiva della Questura determina una situazione di fatto che realizza un impedimento all’esercizio di un diritto inalienabile della persona, quale quello di richiedere la protezione dello Stato ospitante, costituzionalmente tutelato dall’articolo 10 comma 3 Cost. Tale situazione espone il cittadino straniero al rischio potenzialmente irreparabile di un rinvio nel Paese di provenienza, oltre ad impedire un accesso concreto a forme minime di assistenza ed a qualsiasi opportunità di integrazione sul territorio. L’impossibilità di formalizzare la richiesta reiterata di protezione internazionale ha, infatti, determinato il perpetuarsi della condizione di irregolarità del ricorrente, con il conseguente pericolo di espulsione, causando altresì l’impossibilità di accedere al lavoro ed ai diritti connessi alla presenza regolare sul territorio, tra cui il sistema di accoglienza dei richiedenti asilo.

Tribunale di Milano, Sezione specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione europea, ordinanza n. 5044/2020, 11 agosto 2020, R.G. n. 8601/2020

Cause ostative al riconoscimento della protezione internazionale – insufficienza dei semplici indizi – cause di esclusione – pericolo per la sicurezza o l’ordine pubblico – reati gravi

Semplici indizi sulla commissione di crimini di diritto internazionale, reati gravi, ovvero sul pericolo della sicurezza dello Stato o dell’ordine e della sicurezza pubblica non sono da soli sufficienti ad integrare una causa di esclusione dal riconoscimento dello status di beneficiario di protezione sussidiaria. Le cause di esclusione dalla protezione internazionale, considerate le serie conseguenze che discendono da una loro applicazione, e segnatamente l’impossibilità di accedere al trattamento associato dalla direttiva al formale riconoscimento dello status, devono essere applicate restrittivamente, e, come più volte osservato dalla Corte di Giustizia (sentenza 9.11.2010, cause riunite C-57/09 E C-101/09, Bundesrepublik Deutschland c. B; causa C-57/09, D, causa C-101/09, punto 87 e, con specifico riferimento alla protezione sussidiaria, sentenza 13 settembre 2018, causa C-369/17, Shajin Ahmed contro Bevándorlási és Menekültügyi Hivata, punto 48), soltanto dopo avere effettuato una valutazione, per ciascun caso individuale, dei fatti precisi di cui ha conoscenza, al fine di determinare se sussistano fondati motivi per ritenere che gli atti commessi dalla persona interessata, che per il resto soddisfa i criteri per ottenere lo status, rientrino in uno dei casi di esclusione. Ne discende che “il semplice sospetto” non è, chiaramente, sufficiente per applicare una causa di esclusione.